Nato nell’Ottocento nei teatrini delle fiere, il wrestling si è trasformato negli Stati uniti in un «divertimento sportivo» capace di attirare un pubblico considerevole. Con i suoi combattimenti sceneggiati in anticipo e i suoi lottatori variopinti, offre al pubblico uno specchio deformante in cui si riflette l’assurdità dei rapporti sociali. Questo universo cinico e burlesco s’inscrive, in fin dei conti, nella grande tradizione europea del buffonesco.

DI BALTHAZAR CRUBELLIER *

Paul Bearer

Infagottato in uno smoking tagliato male, un uomo maturo, atletico, con un fisico da ammaestratore di orsi, avanza al centro della scena sotto i fischi di migliaia di spettatori radunati il 26 maggio 2008 a Denver (Colorado). Dietro di lui, un impianto audio superpotente sputa una musica rock dagli accordi indistinti. Squadrando il pubblico, urla con una voce rauca: «It’s all about the money!» («Contano solo i soldi»).

L’uomo sa di cosa parla: egli altri non è che Vincent Kennedy McMahon, il ricchissimo proprietario della World Wrestling Entertainment (Wwe), la principale federazione di wrestling degli Stati uniti. Questo lottatore frustrato, il cui patrimonio è attualmente stimato in più di 500 milioni di dollari (1), regna sulla produzione di un divertimento familiare capace di radunare tra i 5 e i 6 milioni di telespettatori americani davanti al Monday Night Raw (2). Lo spettacolo, che attira regolarmente tra dieci e ventimila persone nelle sale americane (fino a settanta od ottantamila per i grandi eventi), è trasmesso in diretta o in differita da quarantatré canali in tutto il mondo.

Ispirato sia alla lotta che allo spettacolo da fiera, il wrestling si è sempre distinto dagli sport di combattimento per una certa elasticità delle sue regole. In origine, per vincere, un lottatore doveva inchiodare al suolo le spalle del suo avversario fino al «tre» dell’arbitro. Tuttavia, la volontà di rendere gli incontri più spettacolari e di riservare un posto sempre più grande alla messa in scena dei combattimenti, ha condotto la Wwe a introdurre continuamente nuove specialità (incontri a squadre, Royal Rumble, Iron Man Match, senza squalifica, ecc.).

Quando acquista la World Wrestling Federation (Wwf), antenata della Wwe (3), nel 1982, McMahon non ha nulla a che vedere con un fondatore di imperi. A quell’epoca, la maggior parte degli americani considerava il wrestling uno sport eccessivamente violento. Inoltre, i differenti organizzatori si dividevano il territorio nazionale, evitando scrupolosamente qualsiasi concorrenza o rilancio. Non riuscendo a prosperare, gli attori del mondo della lotta professionistica vivacchiavano. Nell’arco di tre decenni, il nuovo arrivato trasformerà un’attività capace di riunire qualche migliaia di appassionati in un «divertimento sportivo» (termine di cui si attribuisce la paternità) capace di rivaleggiare, sul piano economico, con la maggior parte dei grandi sport americani.

Se un tale successo si spiega in parte con la moltiplicazione delle reti televisive avide di «contenuti» (4), deve molto anche all’idea maturata da McMahon sullo spettacolo di lotta. A partire dai suoi vagiti a metà Ottocento, con il nome di «lotta libera», il wrestling non si riduce allo scontro tra due atleti: mette in scena anche l’opposizione tra due personaggi molto caratterizzati psicologicamente.

Alla stregua di ciò che avviene nella commedia dell’arte, ciascun protagonista incarna un aspetto della natura umana. Fino all’inizio degli anni ’90, questi bozzetti sono estremamente rudimentali. Si riconoscono soprattutto il «cattivo» (o heel), degenerato e sleale, e il «buono» (o face), che combatte rispettando l’avversario. Pseudonimi pittoreschi facilitano l’identificazione dei protagonisti: l’Angelo bianco, il Boia di Béthune o il Piccolo Principe, star note nella Francia degli anni ’50-60. Il rapporto tra il nome di un personaggio e la sua natura profonda è ancora vago, ma l’idea c’è.

McMahon la radicalizzerà. Rifacendosi all’estetica variopinta dei celebri supereroi dei fumetti (Flash, Daredevil…), che conoscono un crescente successo alla fine degli anni ’80, gli sceneggiatori della Wwf sviluppano una serie di personaggi sempre più eccessivi, che non tardano a imporsi nell’immaginario degli adolescenti dell’epoca. Così il wrestling esce dall’isolamento: i bambini che avevano ammirato le gesta di Batman o di Superman al cinema applaudono i costumi vistosi e le acrobazie di The Undertaker («il becchino»), di Ric Flair e di Hulk Hogan. Oggi, gli uomini di meno di 35 anni costituiscono la componente più grande del pubblico della Wwe (5). Forte del suo successo economico e della sua crescente popolarità, il wrestling fa brillare gli occhi dei programmatori europei (Canal+, Rtl9 e Nt1 in Francia, Sky Sports in Inghilterra) e venire l’acquolina in bocca ai commercianti di giocattoli che vendono a un ritmo sfrenato figurine, costumi, carte e accessori legati all’universo della lotta.

Ispirandosi al fumetto, gli sceneggiatori creano degli eroi sempre più complessi e mettono a punto una scenografia che si rifà sia alle forme del grande spettacolo sportivo sia al registro narrativo delle serie televisive. Un match – o «episodio» – ha una durata compresa fra l’ora e mezzo e le due ore. L’entrata dei lottatori nella sala gremita, che per alcuni riprende una vera coreografia ritualizzata, può occupare fino a cinque o sei minuti.

Infarcito di interruzioni, il combattimento stesso costituisce solo una parte di uno spettacolo che si prolunga tra le quinte, dove si continuano a filmare i personaggi. Il pubblico ammassato nella sala segue le loro peripezie grazie a schermi giganti. Amicizie, tradimenti, alleanze, rivalità: ogni serata a pagamento (una al mese all’incirca) segna una svolta. Da qualche anno le scene più spettacolari si svolgono lontano dal ring: incidenti d’auto, assalti all’arma bianca, intimidazioni… naturalmente trasmesse sullo schermo. In questo contesto, la performance atletica è solo un mezzo per far progredire una storia che si prolunga a volte per lunghi mesi.

Un racconto scandito dai match

I wrestler non sono più la semplice incarnazione di un carattere (il furbo, il leale, il brutale…), ma diventano dei personaggi a tutto tondo, inseriti nella temporalità lunga di un racconto scandito dai match. È un mondo di finzione, con i suoi falsi titoli, i suoi falsi intrighi, i suoi falsi k.o. e i suoi colpi non affondati; un mondo dove il retroscena fa parte della scena, poiché i responsabili della federazione si autoinvitano regolarmente sulla scena e partecipano attivamente allo spettacolo.

Fino alla fine degli anni ’80, l’ideologia espressa dalle trame coincide perfettamente con i luoghi comuni sportivi: solo i campioni hanno diritto di cittadinanza. Ma, con il tempo, la questione sociale irrompe sul ring. E il successo, in particolare quello finanziario, assume un aspetto sempre meno lusinghiero. Difficile sapere, tuttavia, se questa linea è stata immaginata da McMahon e la sua squadra oppure se gli sceneggiatori, sempre pronti a cavalcare le reazioni del pubblico, si sono semplicemente lasciati condurre dagli eventi.

I personaggi di Ted DiBiase (detto Million Dollar Man) e di Irwin R. Schyster (alias Irs, una sorta di agente del fisco americano, in abito tradizionale da contabile) rappresentano senza dubbio il miglior esempio di questa visione molto estremizzata dei rapporti sociali. Al limitare degli anni ’90, i due atleti formano una squadra dal nome evocativo: Money Inc. Durante un anno e mezzo, collezionano vittorie ricorrendo ostentatamente alla corruzione e a tutte le astuzie amministrative. Gli sceneggiatori non perdono occasione per mostrare la losca morale del fisco e dei grandi pescecani Usa, per la gioia degli spettatori. Il messaggio è chiaro: per guadagnare, non bisogna solo barare, ma anche avere agganci nei piani alti.

Diverse forme di dominio sociale sono pizzicate così, più o meno felicemente. Gli intellettuali (con il personaggio di Dean Douglas, un universitario), i ricchi (le umiliazioni pubbliche inflitte da Ted DiBiase a Virgil, suo fedele valletto, hanno a lungo animato le diverse trasmissioni della Wwf) o addirittura, ciò che è più strano nel contesto americano, gli aristocratici. Questo ultimo esempio mostra tuttavia i limiti del sistema messo in atto dagli sceneggiatori. Dopo aver incarnato per anni Hunter Hearst Helmsley, presunto rappresentante della nobiltà del Connecticut, Paul Michael Levesque è stato costretto a indossare un nuovo costume, quello di The Game, una sorta di capobanda amante dell’hard rock, più in linea con i gusti del pubblico.

Al contrario, i wrestler più apprezzati rappresentano spesso delle figure uscite da contesti popolari (poliziotti, operai, rapper, uomini della strada) o dalle minoranze etniche (latini, neri o amerindi). Anche quando il personaggio stesso non è legato direttamente a una classe sociale, può attirare i favori del pubblico aggiungendo al suo travestimento un elemento che lo associ al quotidiano. Così, nel 2008, The Heartbreak Kid (un bellimbusto al tramonto) aveva riscosso la simpatia dei fan rivelando che la celebre crisi dei subprime l’aveva messo sul lastrico.

Contrariamente a sport di alto livello, gli atleti più titolati non sono i più apprezzati, al contrario. Quando gli eroi del pubblico raggiungono la vetta, non ci restano mai a lungo, detronizzati da qualche vigliaccata o dall’intervento illecito da parte di terzi; mentre i personaggi più malefici e senza scrupoli si stagliano al sommo del cartellone. Così facendo John «Bradshaw» Layfield (detto Jbl, ricchissimo allevatore texano) ha conservato il titolo di campione della Wwe per duecento ottanta giorni (un record), utilizzando senza vergogna la sua fortuna per comprare arbitri e ufficiali di gara o ingaggiando altri wrestler per combattere al suo fianco.

Dalla satira sociale elaborata dagli sceneggiatori emerge che il successo non premia la bravura o il merito, ma deriva da una manipolazione sistematica delle regole. L’inverso del «sogno americano» mostrato dai principali canali della diffusione culturale (sport, cinema, televisione)?

Niente incarna questa filosofia meglio di McMahon stesso. Seguendo la grande tradizione inaugurata da Phineas T. Barnum (6), il proprietario della Wwf si è dedicato molto velocemente a cancellare la frontiera tra realtà e finzione, mettendo in scena i propri spettacoli. Paradosso o coerenza? Il proprietario della Wwe non ha mai utilizzato la sua posizione per presentarsi sotto una luce positiva. Sul ring, campeggia come un padrone tirannico, collerico, incompetente e sufficientemente stupido – la quintessenza dell’universo che lui stesso ha messo in campo. Nel corso di molti anni ha squalificato gli atleti o cambiato i risultati dei match a suo piacimento. Ogni serata-spettacolo lo vede implicato in incidenti con i wrestler più in vista, che lo ridicolizzano al termine di combattimenti rocamboleschi.

Nel 2006, volendo rincarare la dose delle provocazioni, McMahon apparì in una serie di scenette nel corso delle quali proponeva a vecchi wrestler al tramonto di far ritorno nella Wwe, invitandoli a unirsi al «Kiss My Ass Club» (il club «Baciami il culo»). Nelle sale colme ai quattro angoli del paese, il ricchissimo imprenditore abbassava i pantaloni in mezzo al ring per permettere alla propria vittima di ubbidire. Sotto le urla e le raffiche di improperi, il presidente prendeva il microfono per aggredire la folla: «Voi fate la stessa cosa in ufficio tutte le settimane, allora non vedo perché non possa esigere un po’ di rispetto anch’io!».

note:
* Giornalista
Connecticut Post, Bridgeport, 10 novembre 2009.

Secondo l’istituto americano Nielsen, riportato da Usa Today, McLean (Virginia), 23 aprile 2009.

La Wwe è nata dall’acquisto da parte della Wwf di due federazioni rivali, la World Championship Wrestling (Wcw) nel 2001 e l’Extreme Championship Wrestling (Ecw) nel 2003.

Vedi Johan Heilbron e Maarten Van Bottenburg, «Gladiatori del terzo millennio», Le Monde diplomatique, ottobre 2009, edizione francese.

Il quarantuno per cento del pubblico americano della Wwe è costituito da uomini tra i 18 e i 34 anni (ComScore Media Metrix, aprile-giugno 2009).

Impresario americano dello spettacolo (1810-1891), divenne celebre per i suoi scherzi e i suoi fenomeni da baraccone.

(Traduzione di V. C.), http://www.monde-diplomatique.fr/2010/05/CRUBELLIER/19123